Claudio Strinati
“THE SEA, UNLESS EXCEPTIONS”.
Presentazione della Mostra di Marco Rossati alla “Ardel Gallery of Modern Art” di Bangkok – Gennaio 2013
Marco Rossati è un pittore educatosi nel culto della tecnica e della tradizione e non è mai venuto meno a questo convincimento. Nello stesso tempo è stato fin da giovanissimo felice “inventore” di immagini inattese, di ambientazioni singolari e affascinanti, aggirandosi sempre in un mondo arcano e enigmatico. Così nella fase attuale, che rappresenta forse il culmine della sua creatività e della sua ricca e multiforme immaginazione, Rossati ha raggiunto risultati sostanziali proprio sul doppio versante dell’eccellenza tecnica e della libertà espressiva.
In questa occasione noi vediamo un insieme di opere molto coerenti tra loro al punto che potremmo interpretarle come tanti capitoli di un libro organico dove l’autore racconta un’ unica storia che continuamente si trasforma mentre viene narrata ma restando costantemente uguale a se stessa.
C’è un elemento che unisce tutti, o quasi, questi quadri ed è l’acqua. I personaggi rappresentati sono per lo più immersi nel mare e sono visti dall’autore a distanza ravvicinata. Gli spazi in cui le figure giacciono sarebbero immensi e sconfinati ma la percezione nel quadro è ristretta e serrata.
C’è sempre presente uno strano principio, quello per cui le immagini incombono in maniera nitida e inquietante sull’ osservatore che se le vede venire incontro, come se il pittore si fosse messo su una barca che attraversa velocemente lo spazio o fosse improvvisamente emerso da una batisfera dove è andato a controllare i fondali, o al contrario si fosse inabissato, per andare a sorprendere i suoi personaggi in preda a incubi, inquietudini, malie e seduzioni inspiegabili ma evidenti.
C’è anche lui in qualche quadro e uno in particolare dice molto della sua ispirazione in generale. E’ l’Autoritratto con il pesce rosso dove in lontananza dietro a Marco che sta nuotando si vede un vulcano in mezzo al mare che esplode quasi fosse una bomba atomica. Lui nuota e ci viene incontro con la maschera dato che sta emergendo dall’ acqua dopo un’ immersione e ansima scrutando l’osservatore. Non è chiaro se voglia dare di sé una immagine affannata, malinconica o grottesca, ma è evidente che sono proprio questi i temi degli altri quadri che ha affiancato al suo Autoritratto. La malinconia, appunto, è l’evidente soggetto di vari quadri, e questo vale anche per la dimensione del grottesco, amaro e ironico insieme, come in quel notevole quadro in cui un canestro pieno di pesci naviga contro un cielo incantato di stelle luminosissime e fiabesche. Il temperamento onirico e visionario di Rossati rifulge in tutte le opere di questa mostra e rifulge in parallelo l’eccellenza della ricerca tecnica che ha portato il pittore con gli anni a perfezionare sempre di più la pittura a tempera grassa come fecero gli antichi e come il maestro, con l’ausilio del figlio significativo pittore anche lui, sta facendo. Per Rossati la pittura a tempera grassa, che è sempre magnifica di materia, splendente di timbro, densa e complessa nella stesura, è la pittura in sé e giustamente la sua passione per la tecnica antica è stata da alcuni esegeti accostata a ricerche iniziate ormai cento anni fa nell’ ambiente, dotto e consapevole, di De Chirico e Savinio e poi coltivate da molti dopo di loro.
Rossati, a differenza di altri, individua nella pittura a tempera grassa l’ antidoto contro tutte le tentazioni di vaghezza, misticismo, irrazionalismo che hanno contraddistinto tanti aspetti della ricerca artistica contemporanea. Rossati non crede in particolare nella sopravvivenza dell’ idea metafisica ma crede invece alla certezza e fermezza della tecnica antica.
Tale tecnica gli permette di esprimersi con implacabile chiarezza e precisione rendendo perspicue e nette le sue visioni sbalorditive di incontri impossibili e pure così ravvicinati tra il fuoco e l’acqua, tra personaggi che sembrano voler scavalcare il confine del quadro per piombare sull’osservatore e altri che sembrano volerlo rendere partecipe di questa visionaria concezione dell’arte che con logica perfetta ci trasporta sui confini dell’ inconscio e del misterioso.
Rossati porta ora a perfezionamento quella che è stata sempre la sua poetica e che si vedeva già con assoluta chiarezza in certe opere giovanili come il magistrale ciclo dei Segni zodiacali, per certi versi lontano dagli esiti di oggi ma in realtà presupposto ineliminabile per una parabola quale è stata ed è la sua, sempre distintasi in coerenza e consequenzialità.
Gli piace pensare a una sorta di terra di confine dove l’ enormemente lontano e l’enormemente vicino sono entrambi percepiti e compresi dall’osservatore che vede tutto con chiarezza ma stenta a capire il senso ultimo di queste rappresentazioni.
Non perchè Rossati sia un cervellotico o un astruso. Anzi è maestro di una logica figurativa che ha, nel contempo, la robustezza di una filosofia sentimentale e la logica strutturale di una regione ancora da esplorare da parte di molti ancora ignari ma, alla verifica, prospera e civile.
Rossati è un artista che ha imparato dal secolo ventesimo una concretezza di linguaggio per molto tempo osteggiata da chi continuava a distinguere la storia dell’arte del ventesimo secolo in Avanguardia e Tradizione.
Ora, superata la soglia del nuovo millennio, questa dialettica sempre più assume un carattere ben diverso, molto più interconnesso e molto più libero rispetto alle molte gabbie concettuali del passato.
Rossati è un spirito libero che segue la sua ispirazione e non concede niente alla lusinga dell’effetto facile, ma il suo mondo figurativo, globalmente inteso, è uno dei più affascinanti, delicati e magici territori su cui l’osservatore attuale possa muoversi cogliendo continui spunti e continui suggerimenti scaturenti dall’alta qualità e dalla profonda etica di questo artista.
Claudio Strinati
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Claudio Strinati
“TEMPI DELLA VISIONE”
(Presentazione a catalogo della mostra di Marco Rossati al Museo di Foggia – Ottobre 1998)
In margine al catalogo della recente mostra dedicatagli dal C.E.R.E di Reggio Emilia nel 1996 (Otello Lottini, Marco Rossati. La metamorfosi del segno), Rossati ha pubblicato una sua strana composizione poetica dove il testo contiene curiosi giochi di parole, evidentemente molto significativi. È interessante metterne in luce almeno uno, quando il maestro dopo aver dichiarato, in modo un po’ ellittico “dipingo i vuoti sotto gli attimi” con quel che segue, scrive: “Qui l’arte è la finzione i della luce, funzione del colore”.
Non è una frase vaga questa, ma un preciso atto critico sul proprio lavoro e merita, quindi, nell’occasione attuale, di essere brevemente discussa.
Il pittore offre, cioè, una chiave di lettura per l’interpretazione del suo lavoro e sarebbe sciocco non seguirlo, perché Rossati possiede la qualità di avere una visione chiara delle sue opere, disdegnando di ergersi a filosofo o teorico dell’estetica, ma con idee ben precise sull’arte e sul nostro tempo.
Giova, così, seguirlo in questo itinerario mentale di cui le opere effettivamente eseguite non sono la conseguenza, ma la sostanza di una ispirazione che avverte la necessità di riflettere su se stessa con risultati di ammirevole compiutezza.
Rossati, a ben vedere, formula con sempre maggiore coerenza immagini di figure isolate che inducono l’osservatore a guardare il quadro con una attenzione estrema, quieta, austera. È un grande edonista Rossati, almeno in apparenza, e lo dimostrano bene le sue donne, la cui bellezza e opulenza risaltano evidenti.
È come se Rossati avesse calato nei suoi dipinti la necessità di percepirli con lentezza. Il tempo della visione, che ovviamente ognuno ha diritto di regolare a suo piacimento, è però indirizzato dall’artista verso la calma e la concentrazione.
Questi corpi grandi, morbidi, modellati da uno sguardo che accarezza compiaciuto l’eterno tema delle forme femminili, sono lo specchio in cui deve riflettersi la capacità di contemplazione dell’uomo contemporaneo e non c’è dubbio che, senza essere strettamente debitore di nessuno, Rossati riviva in sé una delle grandi dimensioni dell’arte novecentesca, quella oscillante tra la Metafisica e il Surrealismo, per cui la visione dell’osservatore sprofonda nei meandri del suo stesso modo di percepire, così che chi guarda il quadro guarda in realtà se stesso.
Non è propriamente un gioco da ragazzi, anzi è una cosa difficilissima a farsi e pensarsi, ma è evidentemente che Rossati è orientato in tal senso quando lavora e ciò spiega il verso citato sopra.
L’arte è una finzione, ci ricorda il maestro, ma è anche una funzione. Il gioco di parole vuole indurre il lettore e l’osservatore del suo lavoro a concentrarsi sul singolare significato di una simile espressione, per far emergere la verità più profonda delle sue opere.
La funzione dell’arte, potremmo interpretare, è, appunto, quella della finzione. Ma la finzione estetica, da che mondo è mondo, non è un inganno, non è la bugia che non si deve dire pena la perdita di credibilità morale e intellettuale con tutte le inevitabili conseguenze.
La funzione dell’arte, lo hanno sempre saputo tutti i teorici dell’estetica sia pure al mutare delle proposte, è una finzione buona perché positivo e onesto è il senso dell’arte. La sua finzione, insomma, porta all’espletamento di una funzione che è, invece, vera perché come tale è percepita da chi osserva.
Gli elementi su cui si costruisce questa curiosa, ma perennemente risorgente, dialettica di finzione e funzione sono, secondo Rossati ma in effetti secondo tutti i veri estimatori dell’arte, la luce (che partecipa alla natura della finzione perché non c’è veramente dentro il quadro ma è ricreata) e il colore (che è, invece, una realtà perché, in quanto tale esiste sul serio nell’opera). Si comprende, allora, l’orientamento istintivo di Rossati verso la direzione metafisica e surreale. Rossati aderisce all’idea di fare arte nel punto di equilibrio, così delicato e affascinante, che può stabilirsi tra finzione e funzione. I suoi quadri si collocano in questo spazio fermo e, verrebbe da dire, protetto dall’austera presenza del contemplatore che assiste impassibile a idee di metamorfosi e di assenza, di silenzio e quiete.
L’evidenza incombente delle immagini di Rossati, addirittura, può ben essere persi no connessa con quella dimensione di super realtà che è il sogno. Anzi tutta l’opera di Rossati è un sogno in cui l’evidenza assoluta della materia è la forma giusta di chi pensa in termini, come ancora una volta Rossati stesso annota nel componimento poetico del ’96, di “tempi subliminali”, fino al punto che sembrerebbe lecito cogliere, nella sua pittura, un’eco strana e forse incomprensibile del taglio cinematografico di figure che si destano e, attraverso passaggi misteriosi, si acquietano nella contemplazione di sé.
È giusto che sia così, perché Rossati è artista che vuole assestare nella sintesi il suo mondo espressivo ed è necessario che convivano in lui un’anima metafisica, e un’anima introversa e isolata da sollecitazioni troppo esteriori.
L’austerità della forma è, infatti, minacciata sovente dall’idea della maschera che si insinua nei suoi calmi spazi di contemplazione.
In definitiva le figure sono cariche di materia e di luce, le immagini mirano a una tornitura degna del più classico ordine. Ma il suo non è un atteggiamento dottrinale. In qualche modo sottile ha avuto su di lui un certo influsso il concetto di postmoderno, concetto peraltro impossibile e inattendibile che giustifica e dice tutto o il contrario di tutto, consentendo ogni possibile ibridazione e contaminazione sulla base di un’idea di “fine epoca” che ha senso soltanto quando chi pensa ritenga di vivere tempi che, per il solo fatto di essere appunto lui a pensare, avrebbero la pretesa, veramente assurda, di essere ultimi.
Chi si sente alla fine teorizza in tal modo, ma il fatto è che questo tipo di teoria rimane sterile e vuota. Rossati mi pare una controdimostrazione evidente di questo teorizzare.
Che ci siano stati movimenti di tendenza, dagli anni sessanta a oggi, tesi a ribadire un presunto recupero della pittura, della figura, del neomanierismo, è indiscutibile, ma è un fatto che rientra, più che altro, nella storia della critica d’arte.
È troppo facile dire che un artista come Rossati non ammette etichette. Questo è ovvio e può essere detto legittimamente per altri artisti. Ma sono proprio le etichette in sé a essere largamente destituite di fondamento, mentre è molto interessante il linguaggio figurativo proposto da un artista come Rossati che, emerso da un filone risalente all’inizio del nostro secolo, si concentra sempre più sulla contemplazione dell’immagine e ripropone, con coerente continuità, l’eterna e affascinante problematica dei tempi della visione e del precario equilibrio tra la presenza dell’arte nel contesto sociale come elemento positivo se non determinante e il timore dell’uso strumentale del prodotto estetico, usato in modo surrettizio e aberrante. Sembra di avvertire un punto di approdo e di soddisfazione nel vigile controllo che Rossati esercita sulla sua opera, ormai sganciata da ogni scuola e da ogni schieramento, cui pure l’artista si è a lungo convincentemente riferito.
Con questa manifestazione è legittimo dire che si può compiere non un bilancio ma certo una valutazione serena di un lavoro fatto da un artista che appare sempre più sorretto da una severa ispirazione, tale da consentirgli di allineare una sorta di coerenza, organicità, limpida coscienza dell’operare, ma serenamente condizionato da quel senso del mistero e dell’enigma che i critici più acuti hanno da sempre riconosciuta nelle opere di Rossati, comprendendone il senso profondo come di una vasta metafora generale sul lavoro dell’artista e sulla collocazione sua e delle sue figure nel complesso magma di un inarrestabile cambiamento che non ci rende, però, troppo diversi dalla tradizione che ci è stata appena consegnata e che forse, troppo affrettatamente, si è ritenuto di poter liquidare senza ulteriori meditazioni.
Claudio Strinati
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Paolo Portoghesi
MARCO ROSSATI E IL MITO
da “DEIDALOS”
Giugno 1992
Da circa un decennio la pittura di Rossati è tesa alla sintesi di una bellezza fuori del tempo e, almeno all’apparenza, accessibile al primo sguardo. Bellezza dell’immagine, della materia, delle figure, mostrata senza il timore di andare per impervi cammini spesso additati come scorciatoie non più percorribili.
La ripresa di possesso di una tecnica duttile e la conquistata padronanza della composizione geometrica latente, che permette di usare le figure come eventi strutturali, la maturazione di un proprio modo di utilizzare il colore in accostamenti privilegiati per costruire una musicalità intrinseca alle immagini, tutta la sapienza, insomma, che proviene dal lavoro e dal farsi della pittura attraverso l’organizzazione dei suoi materiali specifici, ha dato a Rossati il coraggio di andare fino in fondo nell’esperienza postmoderna. Esperienza che consiste fondamentalmente nel mettere tra parentesi i linguaggi e i sistemi formali creati in un secolo di ricerca per esprimere lo “spirito del tempo”, provando a vedere se questo spirito non possa essere egualmente espresso anche attraverso l’uso di altri linguaggi ritrovati in un percorso retrospettivo, alla ricerca di una perduta eloquenza e altezza dell’arte.
In realtà, la ricerca postmoderna non è dettata solo dalla impazienza di sperimentare nuove combinazioni paradossali di cose lontane e vicine nel tempo; essa deriva anche dalla coscienza dell’esaurimento di un ciclo di esperienze basate sull’innovazione permanente e dalla scoperta che la frequentazione del passato: La curiosità per le sue testimonianze è enormemente accresciuta, tanto da diventare una caratteristica tipica del nostro tempo: tempo di ingigantita memoria, di continue registrazioni, di sistematiche archiviazioni, di rapide elaborazioni di dati, di inevitabili contaminazioni tra strati temporali diversi.
Il sogno
. “Lo spirito dell’uomo che sogna” ha scritto Bretòn “si soddisfa pienamente di ciò che gli accade. L’angosciante questione della possibilità non ha più luogo. Uccidi, vola più veloce, ama finché ti piacerà… la facilità di ogni cosa è di un valore infinito”.
Nella pittura di Rossati l’elemento onirico ricorre continuamente attraverso una densa trama di simboli visivi. A Rossati interessa evidentemente il potenziale iconico delle cose sognate, il fatto che esse siano state per un momento, mentre sognavamo, comprensibili, anzi, perfino motivate a livello inconscio.
Spesso i sintomi della condizione onirica sono discernibili negli oggetti apparentemente incongrui che compaiono nei pressi delle figure e ne condizionano il comportamento. Come Jung sottolinea: “le immagini che si producono nei sogni sono molto più pittoresche e vivide dei concetti e delle esperienze che rappresentano la loro controparte a livello della coscienza”.
Se nel Surrealismo la mancanza di nessi logici tra le immagini e i significati è ostentata come frutto di un processo automatico che riproduce la libertà del sogno, nella pittura rossatiana gli elementi onirici sembrano introdotti nel racconto per forzarne i significati fino a trascinarci nella regione dove non è più necessario chiedersi ragione delle cose perché esse parlano nel linguaggio dell’inconscio.
Si scopre così il volto “enigmatico” o, paradossalmente, “enigmistico” di questa pittura, che ci attrae come un “rebus” o una “sciarada” ma non ci chiede di lambiccarci il cervello per trovare la soluzione univoca; ci chiede, semmai, di lasciare che le infinite soluzioni possibili ci attraversino come le immagini di un film basato sulle associazioni di idee. È il gioco della caduta del senso e della ripresa di possesso di un altro senso, che non ammette verifiche: tutto interno ed inerente l’operazione costruttiva dell’artista, che sfida l’”inferno dei segni” non da fuori, ma dal suo stesso interno.
Appare chiaro, a questo punto, come l’uso di tecniche e di linguaggi prelevati dalla storia sia un nuovo modo per guardare alla grande foresta di simboli che la natura e la vita continuano a proporre ai nostri occhi. La connessione con il Surrealismo acquista un senso in più, quello di necessario riferimento all’ultima e definitiva delle avanguardie: quella che ha riconosciuto lo scacco, il fallimento delle poetiche della creazione assoluta e ha rivendicato invece le persistenti virtualità creative della rappresentazione delle immagini e dell’uso delle icone depositate nell’inconscio della memoria collettiva.
L’equilibrio dinamico
La geometria latente è un sostegno costante delle costruzioni di Rossati. Osservando gli equilibri da lui creati nel distribuire volumi e spazi, si ha l’impressione di scoprirlo pensare alla tela come a qualcosa da spartire in porzioni dinamicamente equilibrate. Spesso uno dei margini di una figura, o il suo asse ideale, serve a dividere la tela in parti eguali, impostando un telaio di proporzioni semplici, rappresentabili numericamente; ma generalmente la prima mossa per prendere possesso della tela bianca è quella di evidenziare le linee diagonali che uniscono gli angoli del quadrangolo ai punti intermedi di ciascuno dei lati che l’occhio dello spettatore considererà – ne sia o no consapevole – punti privilegiati. Su questi telai invisibili di linee-forza le figure si collocano rispettandone il ruolo.
Nella ricerca dell’equilibrio dinamico rossatiano occorre tener conto di mille cose diverse insieme: della reciproca influenza dei corpi e dei movimenti virtuali, della interazione tra sfondo e figure, della funzione della luce che con il suo flusso crea sulla superficie della tela tensioni, contraddizioni, accentuazioni, sensazioni, tutte strettamente appartenenti alla sfera artistica, e perciò della più alta qualità umana, tali che nessun computer sarebbe mai in grado di decodificare.
Il ritorno alla figurazione e a una complessa e raffinata tecnologia della pittura a olio ha l’immediata conseguenza di riproporre il problema dell’espressione personale attraverso l’invenzione e attraverso il segno. E qui, di nuovo, si ha accesso, per dirla con Gombrich, a un campo di ricerca cumulativa, condotta mediante degli insiemi; nel senso, ad esempio, che l’arte, pur così diversa dalla scienza con le sue “verità verificabili”, ne condivide, però, la particolarità di contenere accumuli di esperienze che interferiscono l’una con l’altra, si compongono tra loro, si sommano e, dopo essersi avvantaggiate l’una dell’altra, divergono nuovamente. “Nessun problema si risolve senza che ne nascano altri…”.
In una lettera al fratello, Vincent Van Gogh definiva come doveroso lavoro “…Lo sforzo mentale di bilanciare i sei colori principali: rosso, blu, giallo, arancio, violetto, verde. Ci vuole duro lavoro e freddo calcolo, quando lo spirito è tesissimo, come un attore sul palcoscenico, impegnato in una parte difficile, quando si deve pensare a mille cose differenti nello stesso tempo…”. E’ intuibile che questo “duro lavoro” e questo “freddo calcolo” non avrebbero prodotto da soli capolavori, senza impulsi di altra natura; ma è certo che quel passaggio fu necessario e che Van Gogh si espresse anche risolvendo i problemi connessi alla sua professione..
Rossati interpreta anch’egli la sua “parte difficile” combinando e impastando colori o componendo le sue figure in termini geometrici: i suoi verdi giallastri o smeraldini, i suoi viola stridenti, i riflessi rossastri delle masse scure dei capelli, fusi con le corporee atmosfere dei cieli al crepuscolo, sono soluzioni di problemi generati in concatenamenti di altre esperienze pittoriche passate e presenti, studiate e gestite con rigore; problemi aperti, scaturiti come rami di un albero dal tronco di un altro problema risolto, non importa quanto tempo fa, da un altro pittore che a sua volta aveva ricevuto da altri lo stimolo a scoprirlo: come la gemma che si apre sulla corteccia di un ramo.
Il meraviglioso
Se, nelle opere fino ai primi anni Ottanta, la ricerca del “Meraviglioso” comportava un momento di rimozione che si esprimeva in paradossali innesti di gestualità moderne, immerse in cornici estranianti e in forzature prospettiche di sapore metafisico, nelle opere del decennio seguente le immagini non sono più vincolate da giustificazioni per la loro collocazione fuori del tempo e delle abitudini visive del moderno.
“Stavolta”, scrive Breton nel Primo Manifesto del Surrealismo, “ho voluto punire l’avversione per il “Meraviglioso” (che fa infuriare certa gente) e il ridicolo in cui si vorrebbe farlo cadere. Per tagliare corto, il Meraviglioso è sempre bello, non importa di che tipo sia. Il Meraviglioso è la sola cosa veramente bella”.
Il carattere del sogno, dunque, aiuta Rossati a rendere le immagini “più pittoriche e vivide, mentre l’equilibrio dinamico suggerisce movimenti di danza, moti accuratamente studiati, che fanno del Meraviglioso un argomento essenziale di questo “teatro”. Qui gli edifici, in instabile equilibrio, pendenti come la Torre di Pisa o la paradossale Casina nel Bosco Sacro di Vinicio Orsini a Bomarzo, appaiono come colpi di scena, come estrema risorsa per immergere i personaggi recitanti in un’atmosfera di sospesa attuazione.
Rossati si serve del Meraviglioso per tentare di riaprire “gli occhi chiusi e le orecchie tappate”, per scuotere con la forza e il potere seduttivo dell’immaginario, la passività acquisita del Modernismo.
Così come le vibrazioni della luce crepuscolare e le trasparenze dell’acqua, le sollecitazioni voluttuose e velatamente erotiche del nudo femminile hanno una parte decisiva nel programma di “persuasione” che Rossati intesse di fronte ai nostri sguardi. Terra e mare si presentano, nei dipinti di Rossati, come intatte meraviglie evocanti una remota Età dell’Oro. Proprio qui è celata la chiave per accedere agli striati e opulenti cieli carichi dei riflessi di un lontano Eldorado, o agli alberi, che sembrano emettere luce da dentro, alle acque, intrise di trasparenze e movimenti. Tanto da giustificare il rimando ai versi del giovane Rimbaud in Soleil et Chair:
Oh, Venere, Oh Dea!
Rimpiango il tempo della giovinezza antica,
dei satiri lascivi, dei fauni animaleschi,
dei che mordevano d’amore la scorza dei rami
e nei nenùferi baciavano la bionda ninfa.
Il nudo rossatiano insegue la pienezza delle forme e contiene, tutt’altro che in contrasto con l’ambiguità del sogno, anche tratti ariosteschi, di schietta, classica corporeità.
Proprio nel nudo, però, l’anacronismo si attenua, filtrando umori e predilezioni che appartengono a un ideale estetico immerso nel nostro tempo; ciò serve a Rossati per trascinarci verso un misterioso orizzonte di ambiguità. Come in un sogno da interpretare, come la sensazione del “già vissuto”, che apre una intera voragine di soluzioni possibili proprio sotto i piedi del problema che ci poniamo.
Nei lavori di Rossati il Meraviglioso è evocato tramite molteplici aspetti dell’immaginario: gli eventi sorprendenti, la pienezza della forma, l’attitudine a stupire tramite il colore, l’importanza della luce concentrata in un momento di grazia, la fase di massima trasparenza della cose, nella quale esse “cominciano a parlare”.
La teatralità
I differenti aspetti dell’arte di Rossati convergono in una sorta di “teatralità” che, dopo tutto, sembra essere tra le attitudini più specifiche e onnicomprensive del suo immaginario.
Si tratta di una teatralità comunque assai diversa dallo scenografismo tipico di pitture concepite come “sfondo”, come “scenario” in cui avviene l’azione. Rossati non dipinge scenari, ma misteriose azioni teatrali in cui vige una stretta complementarietà fra figure e sfondo e che invitano lo spettatore a lasciarsi coinvolgere in diversi modi. Il suo non è un mero “teatro” di illusioni totali: è, per così dire, un “teatro totale”, il cui scopo non è convincere tramite la verosimiglianza, ma far si che lo spettatore sia spinto a riflettere sulla finzione stessa finché, una volta raggiunta la conoscenza rivelata dei meccanismi del “deus ex machina”. sia attratto a compiere la discesa dentro il pozzo, a goderla.
Questo è forse il suo vero modo di essere in quanto artista, a dispetto dei suoi nemici che vorrebbero vederlo impegnato in un improbabile ritorno al “più moderno”.
Rossati, percorrendo questa sua strada liberatoria, ha reso più evidenti i caratteri che esprimono la sua identità personale: la tensione verso il meraviglioso, l’onirico e l’equilibrio dinamico.
Anche se, al fine di capire e valutare a fondo il lavoro di Marco Rossati, è comunque essenziale avventurarsi nel suo studio, riuscire a scorgere i modi del suo pensiero e la sfera di problemi ai quali si rivolge dipingendo. Paolo Portoghesi
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Paolo Portoghesi
BIBLICHE IMMANENZE
Presentazione a catalogo (Fabbri Editori) della personale di Marco Rossati ad Aosta – Museo ‘Tour Fromage’ – 1993
É ormai da vari anni che seguo il lavoro di Marco Rossati. Il mio interesse per questo pittore scaturisce da varie ragioni interagenti che, insieme, formano i dati pittorici e critici a mio avviso più importanti del suo operare.
Innanzi tutto parlerei dello spessore pittorico delle sue immagini, che poggia su un
solido “ritorno al mestiere” e, per così dire, a quell’”ordine” che era fondamento della pittura prima delle grandi avanguardie: immagini che traggono materiale connettivo dall’arte dei secoli aurei, soprattutto quella veneziana per la sensibilità cromatica, ma anche fiammingo-olandese, per il senso magico della natura, per il ruolo particolare che nell’economia del quadro viene affidato al dettaglio. L’estrarre materiale dalla storia non rappresenta, certamente, la totalità della ricerca di Rossati: i suoi dipinti alludono sempre a una apertura verso lin mondo differente, percettibilmente “alieno”, in cui mondi paralleli e universi “altri” vengono descritti unendo tratti e aspetti differenti presi dal repertorio dell’immaginario umano, pianta le cui radici sono immerse nel profondo della stessa realtà.
Il mito, la ricerca onirica e fantastica di queste radici caratterizzano tutta la pittura di Marco Rossati attraverso una spessa rete di simboli visivi, oggetti apparentemente incongrui che appaiono accanto alle figure e ne condizionano i comportamenti in uno spazio e in una dimensione pittorici penetrati a ritroso in se stessi fino a scoprire una sorta di sottofondo junghiano del sogno e della rappresentazione. Sottolinea infatti Jung: “le immagini che si producono nei sogni sono molto più pittoresche e vivide dei concetti e delle esperienze che rappresentano la loro controparte al livello della coscienza”.
Una presenza frequente nella pittura di Rossati (e dalla quale forse sono anche coinvolto professionalmente) è quella dell’architettura.
Il modo in cui questo pittore la utilizza potrebbe essere definito oggettuale: essa, ad esempio, non è inserita in un ambiente percorribile dall’uomo, né concepita come tale; non ci sono nei quadri di Rossati descrizioni di città possibili, di spazi fruiti, abitazioni. Le sue architetture in realtà sono oggetti che colloquiano con la natura per contrasto, costituendosi quasi elementi rivelatori di aspetti segreti della natura stessa. Esse si pongono con l’organicità di un oggetto che si confronta con le forme del mondo naturale estraendone così l’enigmaticità del paesaggio stesso.
Il fatto poi che nella scelta degli elementi architettonici Rossati si riferisca ad archetipi classici come il timpano, il capitello, la volta, e li adoperi rielaborandoli, rifiutando cioè con chiarezza la scelta della semplice citazione, è, a mio avviso, uno degli aspetti più interessanti: non si tratta mai di elementi presi di peso dalla realtà visiva, da un mondo familiare e tranquillizzante, ma di oggetti rielaborati, reinventati con un atteggiamento mentale che fu tipico anche dell’arte metafisica e surrealista, entro cui c’è un intento che può sembrare quasi grottesco, deformante, e che tende invece soprattutto a mettere in rilievo la straordinaria forza, l’eccezionale capacità del linguaggio classico di poter essere continuamente ripensato e reinventato attraverso la storia, utilizzando “l’eccezione che conferma la regola”: proprio quando l’uomo si accorge che certe cose gli sfuggono in quel momento ne risente la necessità più che nel passato, le rivive e le ripropone anche con maggiore intensità.
Questo ruolo, in ultima analisi, interrogativo, affidato all’architettura e alla decorazione architettonica, è uno degli elementi che mettono in sintonia la ricerca di Rossati con quanto avviene nell’area dell’architettura post-moderna dove, ad esempio, diversi architetti tendono a reinterpretare le forme del linguaggio classico filtrandolo attraverso un’immagine che volutamente si fa attonita, come quella dell’infanzia, proprio per sfruttare il senso di magia che deriva da questa “rimozione” della loro perfezione formale, e da questa riduzione ad un archetipo mentale che accetta e ammette di essere trasfigurato, adattato anche ad una immaginazione come la nostra che ormai si è disabituata alla frequentazione in fase creativa delle forme classiche.
La stessa decorazione architettonica, come dissi in altra sede, è in effetti un fortissimo catalizzatore nel rapporto di simpatia con le cose dell’ambiente quotidiano. Una architettura che abbia un aspetto decorato può tornare ad essere una architettura che parla, che stabilisce rapporti immediati di comunicazione con il fruito re, una architettura che di nuovo mette in particolare evidenza il problema estetico, che introduce il rapporto con la memoria collettiva, con il mito, con gli aspetti della nostra identità etnica legata ai ruoli, alla cultura e alla civiltà a cui apparteniamo.
E qui forse tocchiamo uno dei centri della pittura di Rossati; a dispetto dell’apparenza, il suo legame con il passato è molto meno importante di quanto non sia invece la rappresentazione di una condizione estremamente peculiare, tipica del nostro tempo e della nostra cultura, in cui il passato può essere guardato non solo attraverso le lenti del mondo di immagini moderno, ma anche attraverso questa sorta di nuova aggressività che caratterizza l’epoca in cui viviamo.
Ho parlato di elementi mitici nel lavoro di questo artista, e si tratta certamente di una mitografia particolare: il “de rerum naturae” rossatiano, descritto così minuziosamente, non si esaurisce certo in una immagine terrestre, ma pare, nella limpidezza a volte esasperata dell’atmosfera, nelle forme del paesaggio, nello strano incresparsi di acque che tingono la luce al suo passarci attraverso, in ogni suo elemento, pare raccontare l’esperienza di un universo simile al nostro, ma nello stesso tempo differente, un universo parallelo in cui le influenze e le implicazioni con questo sono evidenti eppure misteriose, e nel confronto tra i quali si avverte un rapporto di specularità, senza però poter distinguere tra specchiante e rispecchiato.
Dicevo che nella pittura di Rossati c’è una forte carica di surrealtà ma di clima profondamente diverso da quello surrealista, un clima che corrisponde ad una condizione di perdita del centro assai più radicale di quello che il surrealismo prospettava negli anni venti e trenta, epoca in cui la società industriale era ben lontana dal trovarsi di fronte alla decadenza delle proprie ideologie e dei propri miti, per lo svuotamento dei quali quel surrealismo operava.
La figura umana che generalmente costituisce il “clou” dei quadri di Rossati, la sostanza cui fanno corona e tendono tutti gli altri elementi, viene osservata in una sorta di cristallina trasparenza assoluta in cui le epidermidi, i volti, lo snodarsi dei corpi trovano il modo di risplendere nella mente dello spettatore.
L’obiettivo è una bellezza fuori del tempo e direttamente accessibile, bellezza delle immagini, delle figure della materia, esibita senza percorrere scorciatoie ormai consunte.
Se le pitture dei primi anni ottanta erano condotte alla luce della verifica delle possibilità della metafisica, nelle opere più recenti la ripresa di possesso di una tecnica duttile e sofisticata e la riappropriazione della composizione geometrica latente che permette di usare le figure come elementi strutturali, la costruzione di una musicalità intrinseca alle immagini, la sapienza che proviene dalla riflessione sul proprio lavoro, hanno permesso a Rossati di spingersi fino in fondo nell’esperienza post-moderna, chè, come già mi è capitato di dire, consiste nel mettere tra parentesi e i linguaggi e i sistemi formali creati in un secolo di ricerca per esprimere lo “spirito del tempo”, provando a vedere se questo spirito, levato dalla naftalina non possa essere ugualmente espresso anche attraverso l’uso di altri linguaggi raccolti in un percorso retrospettivo, alla ricerca di una perduta comunicatività ed eloquenza dell’arte.
A questo punto appare chiaro come l’uso dei linguaggi e di tecniche estratti dal passato sia un nuovo approccio al guardare la sconfinata foresta di simboli che la vita e la natura continuano a proporci in quel “meraviglioso” di cui Rossati si serve per tentare di riaprire gli “occhi serrati e le orecchie chiuse” per scuotere con la forza delle immagini la moderna, sapiente acquiescenza.
Eppure questo sogno, minuziosamente descritto e polemicamente sottratto ad ogni attualità, è pervaso da un modo di sentire e di vedere strettamente legato al nostro tempo, a questa incombente fine di millennio.
Attratto dal mitico e dall’onirico, Rossati è approdato al sacro con una serie di dipinti in cui attinge all’immaginario biblico e dove dimostra quanto questo approdo sia per lui stimolante, in un certo senso quasi liberatorio.
Dopo aver dominato per secoli la pittura europea il “soggetto sacro” con la lunga parabola della modernità è diventato eccezione, e la nota eccezione di alcuni artisti “religiosi” ha acquistato il valore di una provvisoria incursione in un recinto proibito da abbandonare subito dopo, rientrando nella sfera rassicurante della laicità.
Rossati (che ha percorso a ritroso e con sicurezza il sentiero che condusse la “modernità” ad abbandonare la tecnica, l’immaginario, il substrato iconologico della pittura, adoperando le macerie del suo itinerario distruttivo come frammenti evocativi di una unità volutamente negata ed esclusa) prova compiacimento e gioia in questa riconquista di un dominio perduto e non risparmia nessun mezzo per coinvolgere l’osservatore nel suo viaggio al di là delle proibizioni e delle amnesie.
Il sacro nelle immagini pittoriche si concreta nella presenza divina, nella teofania, che è per sua natura invisibile: e nella tradizione pittorica essa non è quasi mai visione diretta di Dio; generalmente è irruzione del sacro come presenza segreta in questa o quella scena che rievoca un avvenimento tramandatoci dalla scrittura. E poiché la scrittura è parola di Dio, l’avvenimento descritto dal pittore è racconto divino tradotto in immagini, momento significativo di una “rivelazione” trasferita dalla parola alla visione. Quindi “storia sacra” simbolo da scoprire e commentare in un’ermeneutica tutta specifica, quella dell’immagine pittorica.
Prendiamo i ritratti paralleli di Adamo ed Eva, una delle tipologie pittoriche fecondative della storia biblica, Rossati non ignora che quella galleria ideale che raccoglie tutte insieme le infinite variazioni fatte su questo tema; ma accentua l’importanza dei ruoli in cui si trovano le figure e ne fa gli attrattori simbolici delle due pitture. Il cielo stellato e l’albero di melo diventano strumenti iconologici per mettere in risalto ciò che la bibbia ci rivela: l’uomo sta solo di fronte all’universo che è infinito e la natura che lo circonda è ancora un giardino. Eva, frutto tra i frutti, è insidiata dal serpente ma guarda lontano, sembra consapevole di un atto al quale è predestinata ma di cui sente la erroneità: la disobbedienza implica la cacciata dal giardino. Eppure senza disobbedienza non ci sarebbe la libertà e dalla disobbedienza trae inizio la teoria. Il peccato diventa così la terza dimensione dell’uomo, il suo sottrarsi a una condizione di luce perpetua senza ombre e senza tramonti.
È possibile che Dio nella sua generosità accetti e assecondi la disobbedienza anche se la libertà dell’uomo richiederà a Lui un supplemento di amore!
Altri due temi affrontati da Rossati ci parlano di libertà e di disobbedienza: “la distruzione di Sodoma” e “l’asino di Balaham”. Nel primo tema Rossati non rinuncia a suggerire una simbolica e drammatica visione della trasfigurazione dell’arte. La statua di sale è anzitutto una statua, una immagine scultorea, un essere vivente che ha cessato di sentire e di trasformarsi. In cambio di questa metamorfosi ha acquistato una vita diversa sottratta alla misura del tempo e aperta all’eternità. Non è forse questo il destino dell’opera d’arte che riproduce la natura e, disseccandola, riducendola a una larva immateriale la conserva e la sottrae alla dissoluzione? L’arte è un fuoco che brucia, una sfida al Creatore, come il desiderio di vedere della moglie di Lot, nasce da un’ardente curiosità. Cos’è la città divorata dal fuoco? Come si può guardarla almeno un’ultima volta? Ma la curiosità soddisfatta esige un prezzo. Anche qui la disobbedienza ha un premio, un premio di dolore sulla strada della libertà.
La storia dell’asino di Balaham, meno nota, andrebbe forse richiamata alla memoria rileggendola dalla Bibbia (NM 22/21 e segg.). Rossati ritrae Balaham nell’atto di bastonare la sua asina mentre lo splendido mantello rosso mima la violenza dell’atto e anche il suo rimaner sospeso di fronte alla sognante apparizione dell’angelo, la cui verticalità delle ali si oppone alla diagonale serpentinata del manto con una sapiente contrapposizione dinamica che fa pensare a Rubens e a Pietro da Cortona. E la teofania si manifesta in modi diversi e sfumati: nella forza serena dell’angelo nel vento che modella la stoffa del mantello e persino nell’umile sicurezza dell’animale dalle lunghe orecchie che il pittore impronta di nobiltà come già fecero Giotto, Bellini e tanti altri.
E qui vorrei aggiungere una considerazione che tende a concludere: i diversi aspetti della pittura di Rossati convergono in una sorta di “teatralità” che sembra in ultima analisi l’attitudine riassuntiva e più specifica delle sue immagini.
Se il carattere onirico serve a rendere tali immagini “più pittoresche e vivide”, se l’equilibrio dinamico suggerisce il movimento della danza e quindi un movimento accuratamente progettato, anche il “meraviglioso” diventa ingrediente essenziale del suo teatro e gli edifici in equilibrio instabile, pendenti come la torre di Pisa e la paradossale “casina del bosco sacro” di Vicino Orsini a Bomarzo, appaiono come “colpi di scena”, come estreme risorse per immergere i personaggi recitanti in un’aura di sospesa attuazione.
La teatralità però è cosa ben diversa dal carattere scenografico tipico della pittura concepito come “sfondo” e come accompagnamento dell’azione. Russati non dipinge scenari ma misteriose azioni teatrali in cui tra figure e sfondo vi è una stretta complementarità e invita l’osservatore a lasciarsi coinvolgere doppiamente. Il suo teatro non è il teatro della illusione compiuta; è per così dire “un teatro al quadrato” – in cui l’obiettivo non è illudere tramite la verosimiglianza ma indurre l’osservatore a riflettere sulla finzione e a compiacersene, attraverso la consapevolezza del meccanismo messo a nudo del “deus ex machina” costretto a scendere in
f platea. Forse è proprio questo il suo modo di essere a dispetto di chi lo vorrebbe impegnato in un impossibile revival, più “moderno” dei suoi nemici.
Così, come le vibrazioni della luce crepuscolare e le trasparenze dell’acqua, le sollecitazioni voluttuose e velatamente erotiche del nudo femminile hanno una parte decisiva nel programma di persuasione che Rossati intesse di fronte ai nostri sguardi smaliziati. Nel nudo l’anacronismo si attenua filtrando umori, predilezioni che appartengono ad un ideale estetico datato, immerso nel nostro tempo; e questo serve a Rossati per trascinarci verso un misterioso orizzonte di ambiguità. Come in un sogno da interpretare, la sensazione del “già vissuto” apre una voragine di soluzioni impossibili per il problema che ci poniamo.
Terra e mare si presentano in questi quadri come in corrotte meraviglie che ci par-. lano di una lontana età dell’oro. È in tal senso – per trovare una chiave ai cieli striati e opulenti, carichi di riflessi di un lontano EI Dorado o agli alberi come dotati di luce propria, alle acque portatrici di trasparenza e di movimento – è giusto riandare‘ ai versi crel giovane Rimbaud in “Soleil et chair”:
– O Vénus, o Déesse!
Je regrette les temps de l’antique jeunesse,
Des satyres lascifs, des faunes animaux,
Dieux qui mordainte d’amour l’écorce des rameaux
Et dans les nénufars baisaient la Nymphe bionde!
Essa deriva dalla coscienza dell’esaurimento di un ciclo di esperienze basate sull’innovazione permanente e dalla scoperta che la frequentazione del passato, la curiosità verso le sue testimonianze che si è enormemente accresciuta tanto da diventare una caratteristica tipica del nostro tempo: tempo di ingigantita memoria, di continue registrazioni, di sistematiche archiviazioni, di rapide elaborazioni di dati, di inevitabili contaminazioni tra strati temporali diversi.
Rossati, percorrendo questa strada liberatoria, ha reso più evidenti i caratteri che esprimono la sua identità personale: la tensione verso il meraviglioso, verso l’onirico, verso l’equilibrio dinamico e la teatralità.
“Questa volta – ha scritto Breton nel
36 primo manifesto del Surrealismo – la mia intenzione era di far giustizia dell’odio per il meraviglioso che imperversa presso alcuni uomini e del disprezzo sotto il quale essi vogliono farlo cadere”.
Nelle opere di Rossati il meraviglioso è evocato attraverso diversi aspetti dell’immagine: l’evento sorprendente, la pienezza della forma, il ricorso alla sorpresa del colore, l’incidenza della luce colta in un momento di grazia, la fase di massima trasparenza della visione in cui le cose, per così dire “prendono la parola”.
Paolo Portoghesi
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Maurizio Marini
DA “UN SOGNO PER ACI E GALATEA”
Presentazione a catalogo – Galleria ‘Apollodoro – 1987
…Nelle opere attuali lo stato ludico é fonte di nuova conoscenza, mentre il sogno é il dubbio o, meglio l’altra realtà, donde il mito é esaltazione e archetipo delle possibilità umane, paradosso del vero, sensualità a tutti i livelli, capace in sintesi, di sollecitare le più vitali potenzialità creative lirico-estetiche.
Marco Rossati riscopre tutto ciò e ci coinvolge in una messa in scena (in quanto tale ambigua) virtuosisticamente trascritta in termini di pittura.
I sogni iniziano, pertanto, in quella dimensione spazio-temporale alle soglie del tramonto, in cui il bagliore solare si placa nell’ombra argentea della luna. Da qui emergono, tuttavia, anche i mostri dell’inconscio, quelli che la luce diurna ci aiuta a rimuovere, ma che, vaganti nella nostra fantasia, acquisiscono ruoli preponderanti tra la veglia e il sonno.
Rossati ci conduce, così, attraverso la metafora di un gioco seducente, in una visita all’immaginario “paese delle meraviglie” di cui lui, come un moderno Lewis Carroll, conosce la chiave per entrare e uscire quando vuole.
Possiamo, quindi, oltre che vedere, ascoltare, insieme ad Aci, il canto delle sirene e rimirare le najadi con le maschere, nonché le ninfe che si detergono sulle rive boscose di un magico fiume…
Maurizio Marini
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Cesare Vivaldi
“UNA VERSIONE DEL MITO”
ACI E GALATEA – Presentazione a catalogo- Galleria ‘Apollodoro’ – 1987
…Marco Rossati dà ora una propria versione del mito, e più che “versione” si dovrebbe dire “visione”, tanto intensamente visionaria é la descrizione pittorica che egli ne fa. Sono, soprattutto, pretesti di pittura; figure, emblemi sottintesi al testo (al quadro), ad esso preesistenti, destinati a vivere nel testo e finché esso vivrà, e non altrove. (il che significa che lo stesso Rossati, ovviamente preesistente al testo in quanto del testo auctor, é destinato a vivere attraverso il testo e ad essere immortale finché il testo vivrà e non altrove). Essi sono, in termini diversi, pure allucinazione pittoriche di un pennello che non descrive ma evoca, che non presenta ma presenzia, che non commenta ma determina; e che nel suo determinare é esso stesso determinato, in quanto abilitato a vivere hic et nunc non altrove. Un nome, una volta evocato, può disperdersi entro una cupola di silenzio; ma senza quell’evocazione non esisterebbe la nozione di cupola e non esisterebbe silenzio.
Ciò Rossati sa tanto bene che da alcuni anni altro non fa se non tentare di reinvertarsi la pittura. Pittura in quanto moto del pennello sulla tela, certamente, ma anche in quanto evocazione, come si é detto; magica congiunzione del moto del pennello con ciò che tale moto esprime, di significante con significato. Dalla durezza dei suoi quadri di anni addietro Rossati é pervenuto alla fluidità degli attuali nudi, giorgionescamente pensati entro paesaggi dai quali si distaccano sensualmente, come una coscia si stacca dall’altra(direbbe Ungaretti), col brivido sottile con sui si toglie la buccia a una mela…
Cesare Vivaldi
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Emilio Villa
PRESENTAZIONE A CATALOGO DE
“IL BEATO CREATORE”
Roma – Palazzina Corsini – Ediz. Scienza dell’Arte – 1984
Di Marco Rossati: … similitudini stilizzate con pregevole modestia e parabole circa i segnacoli transognanti dei tempi psicotici ipnotici caotici: sono frastiche somiglianze di neuriche serenità e trasparenze, di cieli e marine fiabesche, o leggendarie, come negli impulsi mitizzanti della calligrafia surreale, ma con vene non mitografiche nella sottostante fluida corsa del vissuto perenne; disgiuntiva dall’abominevole surrealismo delle mode rattrappite, o di trapianto; ma efficace come acquario, bestiario, sommario, in memoria defraudata, incanalata nell’astuccio prezioso di una lezione ambigua delle fantasmagorie.